Domani, 5 aprile 2025, ricorre il cinquantesimo anniversario della prima missione spaziale con rientro d’emergenza durante le fasi del lancio.
Il disastro sfiorato accade durante l’inizio dell’ascesa verso gli strati alti dell’atmosfera della Soyuz 18 (successivamente ribattezzata Soyuz 18-A), a bordo della quale si trovano Vasili Lazarev e Oleg Makarov. Obiettivo della diciassettesima missione di una Soyuz con equipaggio è il raggiungimento e l’aggancio al laboratorio Salyut 4, che si trova in orbita dal 26 dicembre 1974 ed è già stato visitato dal precedente equipaggio della Soyuz 17.
Il lancio avviene la mattina del 5 aprile 1975 dal Cosmodromo di Baikonur, nel Kazakistan, allora facente parte all’Unione Sovietica (diventerà indipendente nel 1992 dopo lo scioglimento dell’URSS); Lazarev e Makarov sono alla loro seconda impresa spaziale, avendo già volato insieme durante la missione Soyuz 12 nel settembre del 1973.
L’inizio del volo verso gli alti strati dell’atmosfera fila liscio come l’olio, ma al momento previsto per la separazione del secondo stadio, ormai esaurito, dal terzo, quattro minuti e 48 secondi dopo il decollo e ad una quota di 145 km, il distacco non avviene nella maniera corretta: il motore del terzo stadio, indispensabile per raggiungere l’orbita terrestre, si accende quando il secondo stadio è ancora agganciato ad esso.
Fortunatamente la spinta del motore del terzo stadio spezza gli agganci che ancora tengono uniti i due veicoli; a questo punto la forte sollecitazione fa deviare pericolosamente il complesso spaziale dalla prevista traiettoria di volo. A causa del guasto tecnico, e avendo rilevato l’anomalia, il sistema di guida automatico della Soyuz attiva il programma di “abort”: l’interruzione di emergenza durante una fase di lancio. È la prima volta nella storia della esplorazione spaziale umana che questo accade.
Al momento dell’avaria, la “torre di salvataggio” collocata all’estremità del razzo A-2 era già stata sganciata ed è quindi necessario attivare il motore principale della Soyuz, separando dapprima il veicolo dal terzo stadio e successivamente dal modulo orbitale e quello di servizio.
Avvenuto ciò, il ritorno verso la Terra della navicella è alquanto drammatico: essendo accelerata fortemente la sua discesa, i due cosmonauti subiscono una decelerazione di 21,3 g invece dei 15 g previsti per queste situazioni di emergenza. Fortunatamente, nonostante il sovraccarico di pressione alla quale viene sottoposta la Soyuz, a pochi chilometri dal suolo i paracadute si dispiegano perfettamente, frenando la navicella e garantendo il ritorno sulla Terra dei due cosmonauti dopo soli 21 minuti e 27 secondi di volo.
Tutto bene dunque per i cosmonauti; i due rientrano a terra sani e salvi, come rilanciano le principali fonti giornalistiche sovietiche nel dare notizia al paese e al mondo dell’avvenuto incidente. Ma a dispetto delle dichiarazioni ufficiali, come ricorda il sito Almanacco dello Spazio di Paolo Attivissimo alla data 5 aprile, i guai di Lazarev e Makarov non sono finiti: la capsula cade su un pendio innevato e rotola verso uno strapiombo alto 150 metri, finché i paracadute s’impigliano nella vegetazione e trattengono il veicolo spaziale.
L’equipaggio si trova immerso nella neve alta fino al petto e a -7 °C, per cui indossa l’abbigliamento termico d’emergenza. Inizialmente teme di essere finito in territorio cinese, in un momento in cui i rapporti fra Unione Sovietica e Cina sono molto ostili, e quindi si affretta a distruggere i documenti riguardanti un esperimento militare che si sarebbe dovuto svolgere durante la missione.
In realtà l’atterraggio è avvenuto in territorio sovietico, a sud-ovest di Gorno-Altaisk, circa 830 km a nord del confine con la Cina e a circa 1500 km dalla base di lancio, ma i cosmonauti non lo sanno fino a quando viene conseguito il contatto radio con un elicottero di soccorso, il cui equipaggio li informa sul luogo di atterraggio. Lazarev e Makarov sono in patria, ma la zona è talmente impervia che non vengono recuperati fino all’indomani.
Inizialmente le autorità sovietiche dichiarano che i cosmonauti non hanno subito lesioni, ma emergerà poi che Lazarev ha subito traumi a causa dell’elevatissima decelerazione. Makarov, invece, tornerà a volare con le Soyuz 26, 27 e T-3.
La censura sovietica nasconde la serietà dell’incidente all’opinione pubblica nazionale fino al 1983: all’indomani del lancio i giornali russi si limitano a scrivere in seconda pagina, con un titolo piccolo e blandissimo (“Comunicato dal centro di controllo del volo”) che lo fa passare pressoché inosservato, che “durante il percorso del terzo stadio del razzo i parametri della traiettoria hanno deviato da quelli prestabiliti e un meccanismo automatico ha fatto interrompere il volo, distaccando la cabina spaziale in modo che scendesse a terra. L’atterraggio morbido è avvenuto a sud-ovest di Gorno-Altaisk (Siberia occidentale). I servizi di ricerca e soccorso hanno ricondotto al cosmodromo i due cosmonauti, che stanno bene”.
Gli Stati Uniti, invece, vengono avvisati sommariamente il 7 aprile, dopo il recupero dell’equipaggio, ma chiedono maggiori chiarimenti, perché sono in corso i preparativi per una storica missione spaziale congiunta fra russi e americani, l’Apollo-Soyuz Test Project, che dovrà decollare tre mesi dopo.
Nella storia dei voli spaziali umani dal 1961, a tutto il mese di marzo 2025, ci sono stati altri tre “abort”, interruzioni improvvise di un volo con equipaggio poco dopo il lancio. A quel primo della Soyuz 18-A si sono aggiunte altre due missioni sovietiche/russe: Soyuz T-10A (settembre 1983) e Soyuz MA-10 (ottobre 2018). Anche in questi casi i cosmonauti a bordo sono rientrati a terra sani e salvi. Ben più tragico l’unico “abort” di una missione della NASA, l’esplosione della navetta Shuttle “Challenger” dopo 73 secondi dal lancio, con la morte dei sette astronauti a bordo.


